Una lettura de La ballata di Stroszeck
Streifzüge 2/2003
Paolo Lago
… i tuoi occhi come vuoti a rendere per chi ti ha dato lavoro
i tuoi occhi assunti da tre anni
i tuoi occhi per loro…
Fabrizio De André, Verranno a chiederti del nostro amore
Bruno Stroszeck, il protagonista del film La ballata di Stroszeck (Stroszeck, 1977) di Werner Herzog, (magistralmente interpretato dall’attore non professionista Bruno S) compie un percorso di rifiuto del milieu quotidiano (e, vedremo, anche del concetto ‚lavoro‘) coronandolo col suicidio. Prima di avviare il discorso, affinché quest’ultimo non risulti incomprensibile, si offre qui di seguito una sintesi degli avvenimenti del film:
„In sintesi, il soggetto. Bruno Stroszeck, cantastorie ambulante che si esibisce nei cortili delle case berlinesi, esce per l’ennesima volta di prigione. E‘ un uomo distrutto. Ha subito violenze „istituzionali“ riservate ai presunti „ritardati mentali“ fin da bambino, nei riformatori nazisti. Bruno possiede ancora un appartamento nel quale ritrova le sue cose più care: il pianoforte, la fisarmonica, il corvo parlante. Senza esitare decide di ospitarvi una giovane prostituta, Eva, che tenta di sfuggire alle prevaricazioni umilianti di due protettori. Per un attimo si crea un nucleo di serenità e di solidarietà tra sofferenti, del quale viene a far parte anche un vicino di casa, il signor Scheitz, bizzarro vecchietto convinto di aver fatto scoperte decisive sul ‚magnetismo animale‘. La tregua alle avversità però è soltanto un’illusione: i protettori di Eva non si rassegnano e tornano ad esercitare su lei e Bruno ogni sorta di brutalità. Ai due non rimane allora che accettare la proposta del vicino di stabilirsi negli USA. Scheitz ha un nipote nel Wisconsin, Clayton, che promette la sicurezza economica per tutti. Eva supera le perplessità di Bruno e si procura i soldi per il viaggio con la sua consueta attività. Il primo impatto col paese lontano non è del tutto negativo. L’America appare sì una terra strana abitata da tipi singolari (… ( e il paesaggio è piatto, desolato. Ma all’inizio sembra esserci ugualmente la possibilità di un ’soddisfacente‘ ménage piccolo-borghese. Eva lavora in un drugstore, Bruno nell’officina meccanica di Clayton. La casa è confortevole, anche se si tratta di una mobile-home, un’abitazione prefabbricata montata su ruote. Poi arrivano, inevitabili e tutti insieme, i guai che finiscono per distruggere Bruno: l’America ha sistemi di esclusione più sottili che in Germania, ma ancora più implacabili. Eva, per pagare le tante rate in sospeso, ricomincia a prostituirsi e alla fine fugge in Canada con dei camionisti; la casa è venduta all’asta (… (. Bruno e Scheitz meditano allora una vendetta verso la società che ‚complotta contro di loro‘ e organizzano una grottesca rapina ai danni di un barbiere. Scheitz viene arrestato subito mentre Bruno fugge sul camion dell’officina senza una meta precisa. Quando arriva in un paese al centro della riserva indiana dei Cherokee, abbandona il suo mezzo che continua a girare in cerchio e sale sulla seggiovia di un Luna-Park abbandonato. Alla fine, mentre la camera inquadra dall’alto il paese, si odono due colpi: l’esplosione del camion e la detonazione del fucile con cui Bruno si è tolto la vita. „1
„Quando ero giovane mi avete rinchiuso in riformatorio, adesso che sono diventato un uomo mi sbattete in prigione, e un giorno mi butterete via… dentro un secchio d’immondizia“, così risponde Bruno Stroszeck – appena uscito di prigione – agli ammonimenti moraleggianti del direttore del carcere. Queste parole, poste quasi epigraficamente all’inizio del film, rappresentano sia la presa di coscienza, da parte di Bruno, di una società che interna i ‚diversi‘ (siano essi i pazzi, i drogati, o gli emarginati di qualsiasi tipo), sia una lucida riflessione sul controllo operato dalla cosiddetta quotidianità: dalla vita quotidiana, dalla routine nasce la somatizzazione di una terribile violenza.
Il film bene lo dimostra: è infatti diviso in due parti, la prima, di ambientazione metropolitana, dentro la città di Berlino, la seconda contraddistinta da spazi aperti, in America. Stroszeck, in realtà, non esce mai di prigione: dopo il carcere incontra la prigione-città, regno della violenza e della „noia“ del quotidiano, di una vita regolata e scandita dalle norme rigidissime del lavoro e del tempo libero. Possiamo ricordare che Baudelaire – poeta per eccellenza della nuova città industriale, secondo l’acuta analisi di Walter Benjamin2 – nella poesia introduttiva ai Fiori del Male, intitolata Al lettore, include la „Noia“ (l'“Ennuit“) fra i mostri più temibili: un mostro che „sogna patiboli fumando la sua pipa“ („il rêve d’échafauds en fumant son houka“). Il verso di Baudelaire mostra glacialmente come la punizione e la morte siano associati all’assurda calma della ‚quotidianità‘. La ‚Noia‘ e il quotidiano aleggiano sulle città (e sul mondo) come lo sguardo del capo supremo detentore del controllo, il quale deve decidere in tutta calma chi eliminare o semplicemente punire („sogna patiboli“; come, in questo periodo, dimostra, a livello mondiale, l’irreprensibile democrazia americana).
La Berlino del film appare fredda e ‚meccanizzata‘, un vuoto ammasso di muri e strade senz’anima. Si vedono solo squallidi viali percorsi dallo sconsolato protagonista, e i cortili degli edifici popolari, circondati da muri come i cortili delle prigioni, dove Stroszeck si reca per cantare e suonare le sue ballate con la fisarmonica. Sembra che nessun luogo, nessun piccolo spazio, nella città, possa essere immune dalla violenza. I protettori di Eva irrompono anche nella casa di Bruno, illusorio, piccolo ’nido‘ costruito contro la violenza esterna. Allora, il viaggio, lo spostamento, appare come l’unica possibilità di rifiuto della violenza del quotidiano: Eva e Bruno seguiranno il signor Scheitz in America. L’ambiente americano si pone in netta antitesi con quello berlinese: gli spazi aperti, immensi sembrano preludere una qualche forma di libertà. In realtà, dal carcere Stroszeck non potrà mai veramente fuggire: il suo iter inizia in quello propriamente detto, continua nel carcere-città e, infine, si stabilizza nella prigione-America. L’acquisto di una casa su ruote sembra coronare il regime carcerario di vita all’interno della democratica America: lo squallido lavoro di Bruno nell’officina del nipote del signor Scheitz e l’impiego di Eva in un autogrill. Adesso, tutte le inquadrature del film sembrano pervase da una subdola apatia, come se il regista avesse posto di fronte alla macchina da presa una specie di filtro rivelatore dei rapporti sociali ‚quotidiani‘. Ma come tutto facilmente offre (almeno nelle illusioni dei protagonisti), così la democratica America tutto facilmente toglie: un bieco funzionario di banca, che parla una lingua incomprensibile per il tedesco Bruno, si presenta spesso nella ‚mobile-home‘ fino a che quest’ultima non viene requisita e messa all’asta attraverso un cerimoniale in cui il banditore deforma in modo alienante il linguaggio, come se a parlare fosse un essere meccanico. Il processo di desocializzazione operato dalla società del lavoro e del quotidiano si è compiuto: inizia, ora, in Stroszeck, il processo del rifiuto. Dopo un tentativo di rapina ai danni di un supermercato (significativamente, il luogo dove la società del lavoro ’spettacolarizza‘ la propria merce), Bruno si reca in un paesino indiano dove si toglierà la vita. Nelle ultime scene del film le torture del quotidiano raggiungono le loro vette più alte; il regista mostra la normalità di un paesino della provincia americana: la strada, il bar, una sala-giochi dove veri animali sono rinchiusi in scatole, per animarsi all’introduzione delle monete, svolgendo azioni antropomorfe dietro impulsi meccanici: una gallina suona il piano, un’altra balla a suon di musica, ecc.
Stroszeck mette in moto tutti i giochi innescando un meccanismo orgiastico ed alienante di suoni e colori. La quotidianità riduce gli uomini ad automi anche per mezzo dell’altra faccia del lavoro, cioè il gioco, il divertimento. Il lavoro, come il dio Giano, è bifronte: nella sua faccia in ombra nasconde lo svago, il gioco, lo pseudo-divertimento, il cosiddetto tempo libero. Walter Benjamin, nel suo saggio su Baudelaire e Parigi, rileva appunto come il gioco d’azzardo, tramite chocs sensoriali, possa sortire gli stessi effetti di una catena di montaggio, cioè ridurre gli uomini ad automi3. Mutatis mutandis, gli stessi effetti ‚choccanti‘ vengono realizzati dai moderni ‚video-giochi‘, nonché dalle imperanti ’sale-bingo‘ che, nelle grandi città come in provincia, sono la più adatta e meritata continuazione di una giornata lavorativa. I giochi innescati da Stroszeck appaiono come la più alta realizzazione di una società democratica fondata sul quotidiano e sul lavoro: dei poveri animali ridotti a macchine, utilizzati per asservire come macchine gli stessi esseri umani.
Intanto, nel parcheggio del bar, Bruno ha abbandonato il camion – che continua a girare su se stesso – col motore acceso. Nell’ossessivo rumore del camion si può avvertire lo stesso suono del quotidiano, come lo ascoltiamo ogni giorno nelle città, con le nostre orecchie martoriate dai rumori dei motorini e delle macchine. Si potrebbe ricordare anche l’inizio de La Via Lattea (La Voie lactée, 1968) di Luis Buñuel: prima dell’innesco del viaggio picaresco e surreale alla volta di Santiago de Compostela, mentre ancora scorrono i titoli di testa, assistiamo a delle immagini di strade in preda a un traffico caotico, in un rumore assordante di clackson e di motori. Queste immagini rendono perfettamente la condizione quotidiana e ’normale‘ degli individui, divenuti macchine e carne da macello in mano alle macchine. Il suicidio è, per Stroszeck, l’estremo rifiuto della società del quotidiano e del lavoro: uccidendosi, Bruno non rifiuta la vita tout court, ma solo la vita che gli è divenuta insostenibile, quella forgiata e impostagli dalla società quotidiana. Il gesto di Stroszeck diviene la metafora del rifiuto, l’estremizzazione di quel rifiuto come ‚via di fuga‘ attuato, ad esempio, dal personaggio Bartleby scrivano nell’omonimo romanzo di Melville4. Come afferma il ’suicida-filosofo‘ nel film Un anno con 13 lune (In einem Jahr mit 13 Monden, 1978) di Rainer Werner Fassbinder (altro film che presenta uno ’status‘ quotidiano divenuto insostenibile), „il suicida vuole la vita ed è scontento solamente delle condizioni che gliel’hanno resa insostenibile; non rinuncia affatto alla volontà di vivere ma solo alla vita, nella quale distrugge la propria immagine della vita“.
La vita quotidiana, la routine, la „noia“, il tempo libero sono – si è detto – sotto l’egida della società del lavoro. Stroszeck compie un rifiuto, iperbolicamente estremizzato nella metafora attuata dal film (rifiuto come suicidio), nei confronti della suddetta società. Prendendo le mosse dalle osservazioni sul film di Herzog, si può arrivare al Manifesto contro il lavoro del Gruppo „Krisis“ dove, nel paragrafo 16 (Il superamento del lavoro), leggiamo: „Il programma contro il lavoro non si alimenta da un canone di principi positivi, ma dalla forza della negazione. Se l’affermazione del lavoro è andata di pari passo con l’espropriazione totale della persona dalle sue condizioni di vita, la negazione della società del lavoro può consistere soltanto nella riappropriazione, da parte della persona, a un livello storico più elevato, del suo nesso sociale con gli altri“5.
Come afferma sempre il Manifesto, nel paragrafo 18 (La battaglia contro il lavoro è antipolitica): „La critica del lavoro ha una chance soltanto se combatte contro il processo di desocializzazione, invece di lasciarsi trascinare da questa corrente. Gli standard di civiltà non si possono più difendere con la politica democratica, bensì soltanto contro di essa“6.
Combattere contro il processo di desocializzazione significa, comunque, andare al di là della logica del puro e semplice rifiuto, il quale deve, in ogni caso, rappresentare il punto di partenza per una riappropriazione – come leggiamo nel Manifesto – da parte dell’uomo, del suo nesso sociale con gli altri7.
Si tratta di creare degli spazi liberati dal lavoro8, di „dare vita a nuovi spazi-tempo anche di superficie e volume ridotti“9, come afferma Gilles Deleuze in una conversazione con Tony Negri, ora raccolta nei Pourparlers. Sarebbe da chiedersi quali sono le nostre esigenze più immediate, qui ed ora, ed opporre un rifiuto alla società della cosiddetta ‚vita quotidiana‘ che continua incessantemente a farci agire come automi. „La capacità di resistenza“ – continua Deleuze – „o, al contrario, la sottomissione a un controllo si giudicano a livello di ciascun tentativo. Occorrono al tempo stesso creazione e popolo“10.
E la lotta contro il lavoro non può essere separata dalla lotta contro la ‚vita quotidiana‘, anche per riappropriarsi di uno spazio urbano finalmente liberato dalla „noia“ e dalla routine.
1 L’intero riassunto del film è tratto da F. Grosoli, Werner Herzog, Firenze, 1981, pp. 84-85.
2 Cfr. W. Benjamin, Baudelaire e Parigi, in Angelus Novus, trad. it. Torino, 1995 (I 1962), (Schriften, 1955) pp. 89-160.
3 Cfr. ibid. , pp. 112-113.
4 Per il rifiuto opposto dal personaggio di Melville cfr. M. Hardt, A. Negri, Impero, trad. it. Rizzoli, Milano, 2001 (Empire, Harvard University Press, 2000), pp. 191-93 e P. Godani, Estasi e Divenire (un’estetica delle vie di scampo), Mimesis, Milano, 2001, pp. 119-21, sopr. p. 120.
5 Gruppo „Krisis“, Manifesto contro il lavoro, trad. it. di A. Jappe e G. Rossi, DeriveApprodi, Roma, 2003, p. 55 (Manifest gegen die Arbeit, Juni 1999 im Eigenverlag, p. 41).
6 Ibid. , p. 63 (p. 48).
7 Sul rifiuto come una sorta di ’suicidio sociale‘ leggiamo una notazione interessante in M. Hardt, A. Negri, Impero, cit. , in un paragrafo intitolato Rifiuto (già citato supra, nella nota 4): „In termini politici, il rifiuto, in quanto tale (del lavoro, dell’autorità e della servitù volontaria) conduce a una sorta di suicidio sociale. Come dice Spinoza, se ci limitiamo a separare la testa del tiranno dal corpo sociale ci ritroveremo tra le braccia il cadavere mutilato della società. Abbiamo bisogno di creare un nuovo corpo sociale, un processo che vada ben al di là del rifiuto“ (p. 193).
8 Cfr. R. Kurz, N. Trenkle, Il superamento del lavoro (uno sguardo alternativo oltre il capitalismo) trad. it. pubblicata in calce al Manifesto contro il lavoro, cit. , pp. 98-122, p. 122 (Die Aufhebung der Arbeit (ein anderen Blick in das Jenseits des Kapitalismus) in Feierabend! Elf Attacken gegen die Arbeit, Hamburg, 1999): „Il futuro oltre il lavoro non è certo un nuovo principio funzionale ed organizzativo, che rimanga astrattamente universalistico, ma uno spazio sociale veramente „aperto“ che si contrapponga alla forma-merce e che favorisca lo sviluppo di una molteplicità concreta in tutti i campi dell’esistenza senza l’impulso coatto che deriva dalla costruzione di un’identità modellata sulla concorrenza e dalla paura dell’esclusione“.
9 G. Deleuze, Pourparler, Quodlibet, 2000, p. 233 (Pourparlers, Les Éditions de Minuit, Paris, 1999).
10 Ibid.