di Norbert Trenkle (tradotto da minusha)
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Nel 2008, a seguito della crisi economica mondiale scatenata dall’implosione dei cosiddetti mutui “subprime” negli Stati Uniti, esce, a cura di Norbert Trenkle del gruppo Krisis, il testo “Weltmartkbeben” (Terremoto nel mercato mondiale), qui tradotto.
Il testo assume un’importanza particolare, nella misura in cui riassume le posizioni che questo gruppo porta avanti da anni e che in qualche modo hanno largamente anticipato la crisi e le sue ragioni. Esso prova a dare una lettura “inattuale” e fuori dal coro della crisi economica in corso, lettura che può aiutare ad impostare correttamente il problema e a cercare soluzioni più radicali e capaci di intaccarne i meccanismi di fondo.
Per un aiuto alla lettura, sinteticamente ecco i punti “forti” del testo:
-la crisi economica mondiale era in corso da lungo tempo e la sua esplosione entro un periodo più o meno breve era ampiamente prevedibile
-le cause di questa esplosione non sono da ricercarsi nella malvagità di un numero comunque limitato di avidi speculatori dediti alla finanza più cinica e spietata, ma nel meccanismo di fondo della riproduzione capitalistica stessa. La “rivoluzione microelettronica”, ovvero il passaggio da una produzione seriale meccanica fondata sul lavoro vivo ad una fondata sulla tecnologia microelettronica, ha destrutturato gli apparati produttivi, aumentando in modo esponenziale la produttività del lavoro e al tempo stesso espellendo lavoro vivo. Questo ha determinato un afflusso enorme di merci sul mercato che restano per lo più invendute, interrompendo quindi la loro necessaria valorizzazione, ovvero l’indispensabile trasformazione in valore monetario, e insieme minato la base stessa della creazione di valore, cioè il lavoro vivo ora espulso dai cicli produttivi, quindi neanche più in grado, come lo voleva per esempio il sistema di regolazione fordista, di concretizzare il ciclo della valorizzazione acquistando la merce prodotta. Almeno dagli anni ’70, da quando cioè la crisi di valorizzazione ha cominciato a farsi pressante, il capitale si è rifugiato nell’ambito finanziario, unico grazie al quale era possibile realizzare i profitti necessari a mantenere in vita il ciclo capitalistico. Questi profitti tuttavia erano fittizi, perché non realizzati grazie all’estrazione di valore derivato dal lavoro vivo, quindi dall’economia reale, ma dalla mera speculazione su valore già esistente, speculazione che da quel momento ha generato una bolla di valore senza base reale (capitale fittizio) la cui inevitabile deflagrazione sta portando conseguenze che cominciano ad avvertirsi, con estrema durezza, solo adesso.
-la politica mostra anch’essa, entro questo schema, i suoi limiti storici, nella misura in cui è un elemento indispensabile, insieme allo Stato, della regolazione e distribuzione capitalistica, e dalle sue regole e dalle sue esigenze determinata.
-false risposte alle cause della crisi determinano fallaci illusioni, come quella che la politica possa in qualche modo trovare soluzioni efficaci, e pericolosi sviamenti, quali quelli che vedono negli “ebrei” (parola usata da quelli di Krisis, oltre che nel suo senso letterale, anche per indicare l’immagine stereotipata di “speculatore” tipo) la causa di tutti i mali. Tra le nefaste conseguenze che questo tipo di risposte possono comportare, non ultima è quella di credere che la soluzione passi per l’“eliminazione” di alcune soggettività e la loro sostituzione con altre più “virtuose”, capaci di “valorizzare” il lavoro onesto e produttivo, lasciando però di fatto intatto il sistema, e non accorgersi invece come siano il capitalismo (il “soggetto automatico” come lo chiamava Marx) ed i suoi meccanismi di riproduzione il problema e l’unica soluzione la loro estinzione.
La produzione del gruppo Krisis, molto ampia e per lo più non tradotta in italiano, è rintracciabile nel loro sito web ==> http://www.krisis.org
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TERREMOTO NEL MERCATO MONDIALE
Sulle cause profonde dell’attuale crisi finanziaria
Maggio 2008 – Norbert Trenkle (gruppo Krisis)
È almeno a partire dalla cosiddetta “critica del capitalismo” di Franz Müntefering nel 2005 che si è imposta un po’ ovunque l’immagine della “locusta” per esprimere ciò che gran parte dell’opinione pubblica già dava per scontato: e cioè che la responsabilità principale dell’attuale crisi economica e sociale debba essere imputata ad “avidi investitori finanziari”. Non deve quindi sorprendere l’eccessivo utilizzo di questa metafora e l’equivalenza, espressa nella broschure del “sindacato unificato dei servizi” (in tedesco: Vereinte Dienstleistungsgewerkschaft – Ver.di), per la quale “capitalismo finanziario = cupidigia allo stato puro”.(1)
Per fortuna è stata articolata, per esempio nei sindacati, una forte critica a questo opuscolo, critica che sembra destinata a dar vita a un dibattito a lungo rimandato. Per difendersi contro le critiche gli autori dell’opuscolo hanno messo in campo un argomento molto illuminante. Avrebbero – scrivono in un contributo pubblicato sul giornale on-line LabourNet – (2) preventivamente discusso sulla metafora “locuste”, arrivando però “alla conclusione che … parlando di queste tematiche, questo concetto andava necessariamente espresso, altrimenti avremmo avuto bisogno di circonlocuzioni complicate, e alla fine sarebbe diventato chiaro ai lettori che comunque stavamo parlando delle ‘locuste’”
Questo argomento è illuminante in quanto sottolinea come la metafora della locusta non sia solo una superficiale attribuzione ideologica, che possa essere sostituita da un’altra più “innocua” (cioè senza connotazione anti-semitica), bensì sia strettamente legata alle argomentazioni della brochure e ad altre simili. Proprio qui insomma casca l’asino. Problematica è però soprattutto l’analisi economica o, più precisamente, il modo in cui viene effettuata la critica del capitale finanziario, con la quale l’immagine utilizzata va a braccetto. Naturalmente la critica del capitalismo deve analizzare la connessione tra l’enorme bolla dei mercati finanziari e la dinamica della crisi globalizzata del capitalismo, e chiedersi quali conseguenze pratiche per i movimenti sociali e sindacali ne conseguano. La questione fondamentale, tuttavia, è in che cosa consista tale connessione. Il seguente testo cercherà di contribuire a trovare una risposta a questa domanda, rispondere alla quale sta diventando, a fronte della sempre più minacciosa crisi dei mercati finanziari internazionali, estremamente urgente.
L’attuale crisi dei mercati finanziari internazionali, che rischia di trasformarsi in una crisi vera e propria a livello mondiale, è attribuita da quasi tutti i commentatori ed esperti economici allo scatenamento senza freni della speculazione, soprattutto negli Stati Uniti. Nel mirino sono finiti quindi banche e fondi di investimento, considerati i principali attori di questa speculazione, ma anche governi e le stesse banche centrali (in primo luogo il governo degli Stati Uniti e la Federal Reserve), che avrebbero consentito e incoraggiato questa evoluzione. Si sentono così rassicurati nelle loro convinzioni tutti coloro che per anni hanno indicato nella speculazione sfrenata la causa principale degli attuali sconvolgimenti economici e sociali – quali la disoccupazione di massa, il taglio dei salari o l’incentivazione della concorrenza e la demolizione dello Stato sociale – e vedono come chiave di volta per risolvere questi problemi la regolamentazione e il controllo dei mercati finanziari.
Ora, potrebbe sembrare, ad una prima superficiale considerazione, che la crescente pressione economica sulla società origini effettivamente, nel suo complesso, dai mercati finanziari. Chi potrebbe negare che essi abbiano storicamente vinto, in modo determinante, e abbiano avuto una forte influenza sullo sviluppo economico? Da lì ad identificarli come i principali responsabili dei mali sociali, è un passo. Tuttavia non è solo per il fatto che rimane in superficie che la polemica contro gli hedge fund, i private equity fund e altri fondi operanti sul mercato finanziario (usando immagini ideologicamente estremamente pericolose come “locuste” e “sanguisughe”)(3) trovi un’eco così forte nell’opinione pubblica. Essa si basa anche su un diffuso preconcetto, per il quale il capitale finanziario, le banche e gli “speculatori” sono i maggiori responsabili dei mali del capitalismo, a scapito – si suppone – del “lavoro onesto” e delle “imprese produttive”, da cui traggono i loro guadagni senza dover alzare un dito. Di conseguenza, è l’“avidità insaziabile” dei mercati finanziari, che aspirano a guadagni eccessivi, ad essere denunciata (come se il modo di produzione capitalistico non si basasse essenzialmente sul principio della massimizzazione dei profitti e la sua strada non fosse da sempre cosparsa di cadaveri).
Questa però non è una critica del capitalismo, quanto nella migliore delle ipotesi una glorificazione nostalgica dello stato sociale, cioè del capitalismo regolamentato, del dopoguerra, quando il mondo si suppone era ancora in “ordine”. Peggio ancora essa apre così, al tempo stesso, la porta all’anti-semitica delirante proiezione il cui nucleo centrale è ben noto: la divisione del capitale fra concreto capitalismo che lavora e un capitalismo astratto e “rapace”, dove “gli speculatori” vengono tout court identificati con gli ebrei, che si pensa tirino le fila dietro le quinte del mondo dell’economia e della politica. Questa pericolosa connessione ideologica è stata, negli ultimi anni, più volte additata e criticata, per cui non vale la pena qui insistere.(4) Meglio invece puntare l’attenzione sul fatto che concentrare l’attacco sul capitale finanziario significa di fatto rovesciare la connessione di causa-effetto dei rapporti della logica capitalistica, e con ciò quindi sul fatto che non solo viene a mancare una corretta analisi dei processi in corso nella crisi attuale, ma anche la possibilità di una resistenza adeguata alle condizioni sociali e politiche che essa impone.
Le conseguenze di lungo periodo della crisi del fordismo
Basta uno sguardo alla storia per dimostrare che l’emergere di grandi bolle speculative e creditizie nei mercati finanziari non è mai stata la causa delle crisi del capitalismo, bensì solo risultato e forma di processi di crisi in corso, le cui ragioni vanno sempre ricercate nella congestione dei capitali da valorizzare nell’economia reale. Ciò vale anche e soprattutto per le attuali turbolenze finanziarie e il lungo periodo di speculazioni che le ha precedute, anche se questa crisi può vantare, rispetto alle crisi precedenti, alcune specificità storiche.
È noto che il decollo e l’ampia autonomizzazione dei mercati finanziari sono cominciati nella metà degli anni ’70. Le ragioni, tuttavia, non sono da ricercare in arbitrarie decisioni politiche o nell’influenza dei ThinkTanks neo-liberali o di potenti gruppi di interesse economico, come spesso si sostiene oggi a posteriori, ma nel fatto che il lungo boom del dopoguerra cadde allora in una profonda crisi strutturale e il fordismo sbatté nei propri limiti. I margini di profitto calarono perché la produttività delle aziende, basate sulla produzione standardizzata di massa, veniva esaurendo mentre, al contempo, avevano successo le lotte dei lavoratori per garantire un aumento dei salari e dei benefici, e il finanziamento delle infrastrutture pubbliche diventava sempre più costoso. Quando i paesi OPEC aumentarono sensibilmente i prezzi del petrolio, e quindi i costi per lo sfruttamento delle riserve di energia fossile salirono velocemente, la forte crescita del dopoguerra giunse alla fine. Gli investimenti in impianti di produzione, fabbriche, edifici, ecc. vennero accantonati, poiché non permettevano più un guadagno sufficiente e, di conseguenza, una parte significativa del capitale venne “liberato “, senza che trovasse più alcuna opzione di investimento praticabile e redditizia.
Poiché però il capitale è per sua essenza valore che si valorizza, e quindi l’unico scopo della produzione capitalistica consiste nel fare più soldi dai soldi (da qui anche il fine capitalistico della crescita quantitativa permanente, senza riguardo per i bisogni umani e i limiti naturali), un tale ristagno del processo di valorizzazione equivale a una crisi. Più precisamente, a una crisi di sovra-accumulazione o – per dirla con il vocabolario economico attuale – a una crisi di sovra-investimenti. Una parte del capitale è in eccesso (sempre relativamente al suo fine astratto) e quindi a rischio svalorizzazione. Questa svalorizzazione non si limita ai singoli fallimenti di società o banche (come sempre avviene in regime di capitalismo normale) ma colpisce – mediata e rafforzata da negativi effetti moltiplicatori – tutta l’economia e la società intera.
Proprio questo è il pericolo che minaccia il capitalismo dalla metà degli anni ’70, pericolo che molti economisti (non solo di sinistra) a suo tempo previdero.(5) Perché tuttavia ancora non si è realizzato appieno? Perché l’economia mondiale non è crollata? Una delle principali ragioni è stata che una quota significativa del capitale in eccesso, che non poteva più essere investito nell’economia, ha ripiegato nei mercati finanziari internazionali, dove è stata investita dapprima soprattutto sotto forma di prestiti statali, successivamente sempre più anche in titoli azionari e obbligazionari. Questo scivolamento nella sfera finanziaria è di per sé una forma del tutto normale della valorizzazione del capitale durante una crisi. Marx ha già analizzato tutto ciò alla luce della crisi del 1857, ed ha coniato per questo il concetto di “capitale fittizio”. “Fittizio” è il capitale creditizio e speculativo, perché agisce solo in apparenza come capitale. Ma per quanto investa per il suo proprio interesse e profitto, la valorizzazione reale resta insufficiente, poiché essa presuppone sempre che vi sia lavoro astratto impiegato nella produzione di beni e servizi e che una parte di esso sia “estratto” in quanto plusvalore. Il “reddito”, che il capitale fittizio “produce” proviene, invece, da altre fonti, siano esse tasse e nuovi crediti (come nel caso della crescita esponenziale del debito pubblico), siano esse “scommesse sul futuro” (come nel caso dei guadagni che provengono da speculazioni in borsa) o la svendita dello stato (come nel caso dei proventi derivanti dalle privatizzazioni).
Questo si vede molto bene nel caso del debito pubblico: lo Stato prende in prestito denaro per poi reimmetterlo immediatamente nel ciclo del consumo. Dal punto di vista del creditore questo denaro appare come capitale, perché frutta interessi. In realtà è stato speso già da lungo tempo, per cui esiste come “valore” solo in forma di richiesta di versamento (titoli di Stato). Ma anche il credito per il consumo privato o per i mutui ipotecari funziona allo stesso modo: i mutuatari prendono in prestito soldi per comprare case, automobili e altri prodotti di consumo. Per i creditori questi stessi soldi appaiono come capitale che è stato investito con profitto, anche se questo capitale in realtà è già stato bruciato nel consumo da molto tempo. Ma questo fatto viene tranquillamente rimosso. Il sistema finanziario o speculativo appare come una opzione di investimento “reale”, come qualsiasi altra, fintanto almeno che il denaro continua a sgorgare.
La bolla del capitale fittizio non solo dà agli investitori una possibilità alternativa, ma significa anche, dal punto vista macroeconomico, un rinvio dello scoppio della crisi. Questo perché il ripiegamento nei mercati finanziari non solo nasconde provvisoriamente la svalutazione del capitale in surplus, ma crea anche potere d’acquisto addizionale mediato da diversi meccanismi, potere che si esprime nella domanda di beni e servizi. Grazie a questo l’economia reale continua a reggere, su questa base può nuovamente ravvivarsi. Nel caso del debito pubblico, questo meccanismo agisce in modo immediato ed è, in quanto tale, già diventato uno strumento chiave della politica economica. Non importa se lo stato prende in prestito soldi per costruire strade, per l’acquisto di aerei militari o per la spesa sociale, questo meccanismo torna sempre indietro nel ciclo del consumo e rianima la congiuntura di crisi. Esattamente la stessa funzione economica compie il credito al consumatore e i prestiti ipotecari, come il recente boom immobiliare negli Stati Uniti ha mostrato, salvo che i mutuatari sono solo individui. Ma anche i guadagni finanziari rifluiscono parzialmente nell’economia reale, sia attraverso la spesa per ristrutturazione di banche, fondi comuni e altri operatori istituzionali del mercato finanziario (dalla flotta dei computer fino agli edifici più prestigiosi), sia che dipendenti o semplici privati finanzino i propri consumi con la finanza speculativa o con redditi da interessi. In questo senso il capitale fittizio è tutt’altro che un peso morto che grava sull’economia reale e la ostacola nel suo funzionamento. Al contrario, esso consente il mantenimento provvisorio delle normali attività capitalistiche.
In tutte le grandi crisi capitalistiche fino ad oggi questo modo di differimento della crisi non è durato molto a lungo. Dopo una breve fase, al surriscaldamento speculativo seguiva inevitabilmente una caduta di grandi dimensioni del mercato finanziario, in cui il potenziale represso di crisi scoppiava con una forza tremenda e distruggeva in un colpo solo gran parte delle strutture economiche e sociali. La specificità storica della crisi del fordismo consiste nel fatto che una tale massiccia svalutazione con un tale accumulo di speculazione e massa di credito non c’è mai stata. Ma questo non significa che le leggi dello sfruttamento capitalistico e della sua logica funzionale siano sospese, come è stato spesso sostenuto. Dal punto di vista storico unico è solo il periodo lunghissimo di differimento della crisi, che tuttavia strutturalmente non è diversa dalle precedenti crisi del meccanismo di capitale fittizio e quindi, prima o poi, deve sfociare in una enorme violenta svalorizzazione. Logicamente, questo lungo periodo di differimento corrisponde al rigonfiamento di una gigantesca bolla di speculazione e di credito. Se oggi, dunque – come possiamo possiamo leggere in quasi tutti i giornali – circa il 97 per cento di tutti i flussi finanziari transnazionali ha finalità meramente speculative, questo non dipende in alcun modo da una “carenza di controllo” sull’economia o dall’“avidità” di voraci speculatori, ma mostra piuttosto quali proporzioni abbia raggiunto il rinvio della crisi, e quindi anche l’enorme potenziale di crisi che è stato accumulato.
Le peculiarità del lungo differimento della crisi
Politicamente, è stata la progressiva liberalizzazione dei mercati finanziari trans-nazionali e il definitivo sganciamento del denaro dall’oro (con il superamento della conversione del dollaro in oro nel 1971 e quindi la fine del sistema regolato dei tassi di cambio), a rendere possibile questo rinvio incredibilmente lungo della crisi. È stato infatti solo grazie a ciò che l’offerta globale di denaro è potuta crescere in modo impensabile rispetto alle crisi precedenti, visto che prima il gold standard e i mercati finanziari regolati nazionalmente ponevano rigide limitazioni. Ma la decisione di abbattere questi confini non è stato un atto accidentale di una politica che avrebbe seguito le indicazioni di alcuni potenti gruppi di interesse.(6) Piuttosto seguiva le dinamiche di sviluppo economico degli anni 1950 e 1960, che a poco a poco hanno minato le basi del sistema di Bretton Woods. Nella misura in cui l’indiscussa egemonia economica degli Stati Uniti andava perduta e i costi per il mantenimento della sua posizione politica e militare mondiale potevano essere finanziati solo da un crescente debito nazionale (i costi della guerra in Vietnam hanno giocato qui un ruolo determinante), tassi di cambio fissi e la dipendenza delle valute dell’occidente alle riserve auree degli Stati Uniti non erano più sostenibili. Ma con ciò si ponevano anche le condizioni per una enorme bolla di offerta di moneta con la partecipazione attiva dei governi, delle banche centrali e degli organismi finanziari internazionali. Sono stati così pompate dal 1970 e soprattutto dopo il 1980 grandissime quantità di liquidità non garantite nei mercati, da una parte attraverso il percorso diretto del debito pubblico, dall’altra grazie a una politica di “denaro a buon mercato”, che è una ricetta classica per risolvere le crisi dei mercati finanziari. Un ruolo centrale hanno svolto qui gli Stati Uniti, i quali hanno potuto ricorrere all’indebitamento per un lungo periodo senza timore di dover incorrere in grosse perdite di cambio grazie alla loro posizione di potenza mondiale, poiché il dollaro ha fattivamente servito da valuta mondiale (un ruolo che viene ora messo in discussione). Ma anche gli altri stati occidentali hanno, con il loro indebitamento e le politiche di creazione di moneta, contribuito in modo significativo a gonfiare in modo permanente la bolla globale di capitale fittizio, in questo modo rendendo possibile un ulteriore differimento del crollo.
C’è da considerare, tuttavia, un’altra caratteristica storicamente importante del lungo ciclo di finanziamento capitalistico che ha preso inizio negli anni ’70. Essa consiste nel fatto che esso non ha rappresentato solo un rinvio della crisi del fordismo, ma anche di quella prodotta dall’enorme spinta produttiva dalla terza rivoluzione industriale. Secondo i termini di una “normale” crisi da sovra-accumulazione la violenta trasformazione della produzione sulla base delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione avrebbe dovuto causare, se possibile, una ancora più profonda depressione in tutto il mondo, nel corso della quale tutto l’impianto economico del dopo guerra sarebbe stato ridotto in macerie. Il lungo rinvio della crisi utilizzando il capitale fittizio, invece, ha permesso di limitare questa opera di distruzione e di confinarla in un primo momento in gran parte nei paesi del Sud del mondo e dell’ex blocco orientale. Se le strutture fordiste si sono poi sgretolate anche nelle metropoli occidentali, questo è accaduto entro un processo più lungo, nel corso del quale la pressione sulle condizioni di lavoro e sui sistemi sociali è cresciuta costantemente e le strutture produttive sono state sconvolte a fondo. A seconda della posizione nel mercato mondiale e della competitività dei diversi paesi, questo processo ha proceduto in modo diverso, ma la tendenza è stata la stessa ovunque: il settore industriale è stato razionalizzato in modo drastico con l’aiuto di applicazioni microelettroniche, e ridotto gradualmente al suo nocciolo iperproduttivo, mentre le parti della produzione, la cui automatizzazione non era (ancora) “conveniente”, sono state relegate nei paesi a basso salario o nell’outsourcing.
Poiché però al tempo stesso il cosiddetto “terzo settore” (o settore dei servizi) è diventato sempre più importante ed ha assorbito una notevole quantità di forza lavoro non più necessaria nel mondo del lavoro industriale, potrebbe superficialmente sembrare che il capitalismo abbia solo attraversato l’ennesimo cambiamento strutturale, che essenzialmente si sarebbe caratterizzato attraverso la sostituzione del vecchio settore-guida dell’industria con il settore dei servizi e della “produzione di sapere” e la contemporanea globalizzazione delle relazioni economiche. Di conseguenza, la stragrande maggioranza degli osservatori e esperti del settore hanno concordato sul fatto che il capitalismo abbia ottenuto notevole successo nel superare la crisi degli anni ’70 e ’80, almeno nelle metropoli occidentali (parola chiave “crisi della società del lavoro”), anche se al prezzo di un aumento della precarietà della vita e delle condizioni di lavoro per ampie fasce della popolazione – fatto che è stato letto, in base alle posizioni politiche, come inevitabile, oppure denunciato come risultato, suscettibile di revisione, delle politiche neoliberiste. Da tutte le parti, tuttavia, la diagnosi che vedeva in tutto ciò un processo irreversibile di crisi è stata giudicata assurda e irragionevole. “Basta guardare come il capitalismo è vivo e vegeto”, si leggeva – di volta in volta con posizioni di giubilo, critiche o rassegnate – con riferimento alle plusvalenze spumanti, soprattutto negli ultimi anni.
L’attuale crisi finanziaria, tuttavia, sottolinea chiaramente come tale valutazione fosse fondamentalmente sbagliata. E questo non a causa di speculazioni che avrebbero distrutto una struttura economica di per sé valida (come nella campagna contro le “locuste” viene sempre sostenuto), ma perché la struttura che si è evoluta nel corso degli ultimi venticinque-trenta anni non può rappresentare una base per un nuovo boom di accumulazione del capitale. Al contrario, essa è rimasta in vita proprio perché si è nutrita in modo permanente dei flussi del capitale fittizio (e ancora adesso ne è alimentata). Una nuovo boom richiederebbe, sulla via di una crescita continua, che venisse utilizzata sempre più forza-lavoro nella produzione di merci al necessario livello di produttività, perché solo attraverso ciò può aumentare la massa del valore e il circolo “Denaro-Merce-più Denaro” essere costantemente mantenuto. Visto dal lato della domanda, ciò significa che in ogni periodo si creano guadagni sufficienti solo se viene venduta la merce prodotta nel periodo precedente. Proprio questi presupposti però non si danno più sotto le condizioni della Terza Rivoluzione Industriale. La razionalizzazione sulla base delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione solca con un ritmo infernale tutti i settori dell’economia in tutte le sue branche, tale da rendere nel suo insieme superfluo un numero sempre maggiore di forza-lavoro, in quanto non necessario per la crescita del momento. Con ciò però non solo il processo di valorizzazione recide in modo permanente la domanda, a cui ha delegato di realizzare nel mercato il valore prodotto. Ancora più radicalmente ne compromette definitivamente il fondamento più proprio.(7) In quanto la rivoluzione microelettronica produce una sorta di crisi da sovraccumulazione permanente, questo significa che crea incessantemente un surplus di capitale produttivo non più valorizzabile, che deve rifugiarsi nella sfera del capitale fittizio, contribuendo quindi in modo molto significativo alla crescita esponenziale della bolla finanziaria.
Crisi? Quale crisi?
Contro questa diagnosi viene spesso sostenuto che sono stati tuttavia creati, negli ultimi decenni, milioni di nuovi posti di lavoro nei paesi ex-periferici, soprattutto nei paesi dell’Est e Sud-Est asiatico, e quindi la base della produzione di valore è cresciuta, non diminuita. Ma questo argomento non tiene conto di due cose fondamentali. In primo luogo, la grande massa del lavoro industriale in questi paesi viene eseguita ad un livello molto basso di produttività e, quindi, in rapporto al livello mondiale standard di automazione e razionalizzazione industriale richiesto sul mercato, rappresenta solo una percentuale molto piccola di valore. Questo perché dal punto di vista della produzione di valore non conta il mero numero di ore fatte, quanto piuttosto la quota di valore di una merce, quota definita dal livello di produttività socialmente già raggiunto.(8) Poiché esso nei segmenti chiave del mercato mondiale della produzione aumenta in modo permanente, le fasi della produzione di lavoro sotto-produttivo esternalizzato restano anch’esse permanentemente sotto-valorizzate. Pertanto, l’outsourcing in termini di business è sostenibile solo fino a quando si mantengono salari sempre più bassi e condizioni di lavoro peggiorative.(9) E questa è a sua volta la ragione per la quale l’attuale spinta alla razionalizzazione non porta ad una riduzione generale dell’orario di lavoro e ad una buona vita per tutti (ancora una volta non si apre spazio per un relativo miglioramento delle condizioni di vita all’interno della società capitalista), ma ad un impoverimento sociale e umano di massa.
In secondo luogo, inoltre, il boom in Cina, India e altri “mercati emergenti” è di per sé ben lungi dall’essere autosufficiente: esso dipende totalmente dalla creazione di fondi speculativi e creditizi sui mercati finanziari transnazionali. È ben noto come l’intera struttura economica di questi paesi sia stata progettata per l’esportazione di massa in primo luogo negli Stati Uniti e nell’Unione europea, i quali a loro volta finanziano le loro importazioni in larga misura con gli afflussi di capitali speculativi e di credito. Paradigmatico in questo senso è il deficit circolatorio del Pacifico, cioè tra Stati Uniti e Asia orientale, che fin dai tempi dell’amministrazione Reagan è diventato il motore centrale dell’economica mondiale. Il suo meccanismo di funzionamento è fondamentalmente molto semplice: il crescente disavanzo commerciale viene coperto da una altrettanto crescente importazione di capitali finanziari, che vengono in parte coperti attraverso la via diretta della spesa pubblica finanziata con il credito (“deficit gemelli”), in parte attraverso il giro del sistema privato della finanza che viene reintrodotto nel circolo del consumo. I flussi di denaro provengono però in gran parte dai paesi asiatici (soprattutto inizialmente Giappone, ora sempre più Cina) i quali investono le loro vendite nel settore finanziario degli Stati Uniti o creano riserve in valuta estera in dollari, finanziando così il loro stesso export. Nell’era Reagan, inizialmente, era il gigantesco debito statale a funzionare da motore per il consumo, poi lo divenne sempre più la speculazione sulla carta – a quel tempo, nella cosiddetta “new economy”, non pochi investitori privati finanziarono una parte del loro consumo grazie a enormi aumenti dei prezzi sul “nuovo mercato”. E negli ultimi anni, il centro focale si è infine spostato verso la speculazione immobiliare.
Tuttavia, questo circuito funziona solo fino a quando il dollaro statunitense gode della fiducia necessaria, in modo che sempre nuovo capitale finanziario affluisca per finanziare il deficit permanente. Questa crisi finanziaria si distingue però per il fatto che la fiducia viene a mancare in misura crescente (come mostra la caduta del corso del dollaro). Se il governo americano e la Fed non dovessero riuscire ad invertire questa tendenza, la circolazione del deficit del Pacifico arriverebbe a un punto morto, e questo avrebbe per l’economia mondiale all’incirca lo stesso significato che il prosciugamento della Corrente del Golfo per il clima mondiale. È comunque anti-americanismo spicciolo, a fronte di questo scenario di pericolo, che in Europa si innalzino ora sempre più voci per denunciare con indignazione gli Stati Uniti che avrebbero “vissuto a spese del resto del mondo”, con il loro “consumo improduttivo” finanziato dal credito,(10) e che vorrebbero ora anche precipitare l’economia mondiale nella crisi. Si riproducono qui una volta di più le divisioni ideologiche fra capitale creditizio “parassitario” e onesto capitale produttivo – e, almeno in Europa, questi schemi dell’ideologia anti-americana sono sempre stati pericolosamente vicini all’antisemitismo – ma soprattutto viene qui completamente capovolto il contesto reale. Perché, da un lato, i paesi europei hanno beneficiato in forte misura della domanda finanziata con il credito proveniente dagli Stati Uniti, in particolare l’industria tedesca che sarebbe già da lungo tempo a terra senza le ingenti esportazioni oltre Atlantico, dall’altro il debito pubblico in Europa rivaleggia con quello statunitense. E anche per la speculazione non siamo rimasti indietro: negli ultimi anni c’è stato, principalmente in Europa meridionale, un massiccio boom speculativo sui mercati dei beni immobili, che ora sta implodendo. Vista nel suo complesso, l’intera economia mondiale capitalistica è appesa al filo del capitale fittizio, poiché l’economia reale non sta più in piedi.
È pertanto completamente assurdo che i commentatori di tutti i giornali, da sinistra a destra, accusino oggi la banca centrale Usa di aver alimentato la speculazione immobiliare attraverso la sua politica dei tassi a basso interesse, per cui sarebbe quindi responsabile dell’attuale crisi finanziaria. Ciò che ha fatto la Fed, dopo il crollo della New Economy, è semplicemente evitare che già in quel momento crollasse la gigantesca valanga dei mercati finanziari. Ha così ancora una volta ritardato la crisi di sette-otto anni e con ciò reso possibile, fra altro, la famosa “ripresa” di cui oggi tutti i politici si vantano. Se quindi proprio si volessero utilizzare categorie morali in questo contesto, si dovrebbe esser grati alla Fed e al governo degli Stati Uniti per aver dato all’economia mondiale, attraverso la loro politica monetaria espansiva, ancora una volta un po’ di fiato. Ma la gratitudine è qui ovviamente inappropriata, come lo è un atto d’accusa morale. Piuttosto, è necessario in primo luogo rendersi conto che la crisi dei mercati finanziari non ha le proprie cause nella speculazione, ma in una crisi strutturale fondamentale della riproduzione capitalistica. Questa consapevolezza ha implicazioni di vasta portata per i conflitti sociali del prossimo futuro.
Un altro rinvio della crisi …
Non è possibile prevedere con sicurezza quale ulteriore corso la crisi potrà prendere. Attualmente non è chiaro se le banche centrali e i governi unendo le forze potranno nuovamente rimandare, grazie ai mercati finanziari, il mega-crash, con i suoi effetti devastanti per il mondo intero. Se dovessero avere successo, questo comporterebbe, tuttavia, solo il rigonfiamento di una ennesima bolla finanziaria. Ciò sarebbe una beffa per tutti coloro che vedono nel controllo dei mercati finanziari la soluzione del problema, richiesta questa che, fra l’altro, proviene un po’ da tutte le parti, anche da coloro che fino ad oggi erano inflessibili neo-liberali – secondo il motto: “Che me ne importa di quello che dicevo ieri”. Ma, in pratica, questo intervento dello Stato equivarrebbe all’esatto contrario: in sostanza, a limitare i danni diretti derivanti dallo scoppio della bolla immobiliare. È significativo che persino il socialdemocratico populista Lafontaine si prodighi per un aiuto statale per le banche in difficoltà: perché sa che un collasso del sistema bancario avrebbe conseguenze devastanti per la società nel suo complesso.(11) Naturalmente ha poi doverosamente richiesto che le banche e gli attori del mercato finanziario siano controllati meglio. Ma questa è pura retorica, perché i crediti inesigibili del presente potranno – se mai lo saranno – esser compensati solo attraverso futuri utili finanziari. Non fa alcuna differenza in linea di principio quindi, che l’attore dei mercati finanziari sia pubblico o privato, perché entrambi sono ugualmente soggetti all’obbligo di gestire il “loro” capitale con profitto, e questo, sotto le permanenti condizioni di sovra-accumulazione, può accadere solo nel settore del credito e della speculazione,(12) visto che i margini per una reale valorizzazione del capitale restano chiusi. Che questo sia riconosciuto o meno è uguale, nei fatti le cose stanno così. I governi e le banche centrali continueranno pertanto ad essere niente di più che casse ancora una volta da spalancare. Governo Usa e Fed sono già su questa strada.(13)
La politica poi è sempre limitata nelle sue azioni dal vincolo di non poter toccare la logica funzionale del capitalismo in quanto tale. Per sua natura essa politica, in quanto gestione degli affari pubblici, resta chiusa all’interno di questa logica. I margini della politica si sono sì modificati nel corso della storia. Sono stati però sempre strutturati e vincolati da uno specifico quanto storico spazio di possibilità, che a sua volta dipende dalle cieche dinamiche di sviluppo capitalistico. All’interno di questo spazio le decisioni e le scelte politiche derivano dalla combinazione di vari fattori quali i rapporti sociali di forza, le costellazioni di potere internazionali o il divario di competitività nel mercato globale. L’insieme del telaio di questo spazio si trova perciò al di là della portata della politica. Ciò vale anche per l’oggi tanto glorificato fordismo. Nonostante il potenziale di regolazione relativamente grande la politica del boom fordista ha, in quel periodo, potuto fare veramente poco per impedire la sua fine. Essa poteva infatti influenzare solo fino a un certo punto il suo corso interno e utilizzare i margini di distribuzione esistenti per la costruzione di una vasta infrastruttura sociale. Nell’epoca della crisi globale capitalistica essa ne rappresenta uno specchio efficace. La politica non può realmente combattere il capitale fittizio, poiché il rigonfiamento costante della bolla del credito e della speculazione è il prerequisito per la precaria tregua della crisi e determina perciò anche lo spazio e i confini del suo agire. Per questo essa deve fare di tutto per mantenere questi prerequisiti il più a lungo possibile, e ciò determina, oltre a misure di politica monetaria, anche il progressivo impoverimento dei beni “pubblici”, che vengono gettati nelle fiamme dello sfruttamento privato al fine di poter mantenere la macchina capitalista in corsa ancora per un po’.(14)
È quindi completamente al di fuori delle possibilità della politica fermare la dinamica della crisi del capitalismo in quanto tale. Piuttosto, essa contribuisce, attraverso le sue azioni, a portare la riproduzione costante delle contraddizioni di fondo del processo di crisi a livelli sempre più alti. Mentre la massa di capitale fittizio, che deve essere protetta contro la svalorizzazione, cresce in modo esponenziale (come mostra uno sguardo alla crescita dei mercati finanziari), aumenta, con ogni fase di rinvio della crisi, la pressione sulla società e sulla gran massa della popolazione, che si trova costretta a vendersi in condizioni sempre più precarie. Di conseguenza, i costi sociali di un nuovo rinvio della grande crisi finanziaria sono di grande rilievo. In primo luogo è da prevedere un conseguente crollo congiunturale, che, contrariamente al presunto “sviluppo”, arriverà con certezza. In secondo luogo, il rigonfiamento della massa monetaria dovrebbe portare ad un ulteriore accelerazione dell’inflazione, e quindi un ulteriore deterioramento del potere generale d’acquisto, già in costante diminuzione. E, infine, la prossima ondata di speculazione, presumibilmente, si rivolgerà alle materie prime, i prodotti alimentari e i carburanti agricoli ed avrà quindi dirette conseguenze, del tutto catastrofiche, per gran parte della popolazione mondiale. Anche i tremendi rialzi dei prezzi per i prodotti alimentari negli ultimi due anni sono stati causati in larga misura dal fatto che sempre più speculatori hanno investito i loro capitali in quei settori. Se questa tendenza si rafforzasse, darebbe luogo a una vera e propria esplosione dei prezzi, che moltiplicherebbe come conseguenza inevitabile la fame nel mondo.
Anche in questo caso tuttavia non sarebbe la bolla del capitale fittizio la causa della catastrofe, ma fungerebbe (come nel caso delle privatizzazioni) come mediatore e cinghia di trasmissione del processo di crisi e della sua immanente tendenza a escludere e precarizzare. Esiste quindi il forte rischio che il nuovo risentimento generato si diriga ancora una volta contro l’immagine di un “avido” capitale finanziario, che viene incolpato della miseria dilagante. Diventa allora importante contrapporsi a questa “critica del capitalismo” rovesciata, che con le sue posizioni dà il fianco all’antisemitismo. Ciò richiede tuttavia, accanto alla necessaria critica dell’ideologia, un’analisi approfondita e fondata della crisi, che sottragga terreno alla percezione sbagliata delle relazioni capitalistiche. Naturalmente questo non significa escludere i mercati finanziari e la speculazione dalla critica. Ma essi devono sempre essere compresi come parte di una più radicale crisi del capitalismo, che si dà come processo complessivo di distruzione su vasta scala dei fondamenti sociali e naturali della vita.
Questa critica è da rivolgere anche contro la concezione, in parte nostalgica e in parte populista, che ripropone le politiche keiynesiane di crescita e regolazione. In fondo anche gli stessi propagandisti di queste politiche sanno che, alle circostanze attuali, non hanno più alcun spazio reale. Questo viene dimostrato regolarmente là ogni qual volta sono i partiti di “sinistra”, con programmi simili a tutti gli altri, a governare e di fatto realizzano l’esatto contrario di quanto promesso, sia che si tratti del governo della città di Berlino non meno che della passata “coalizione di centro-sinistra” in Italia o del governo Lula in Brasile. In modo assurdo, anche gli “elettori” non sono in gran parte solo creduloni e facilmente “ingannati”, ma vista l’assenza di prospettive spesso vogliono essi stessi credere che sia possibile un ritorno allo stato di benessere keynesiano del dopoguerra, anche se ognuno in realtà intuisce che questo non è più possibile. Tutto ciò rende lo stato d’animo generale schizofrenico, tanto che per esempio è possibile in Germania un ampio sostegno sociale alle classiche rivendicazioni democratiche (salario minimo generale, no alle privatizzazioni etc) e al tempo stesso elevati livelli di simpatia per il governo Merkel. Il problema è che questo stato d’animo, nei suoi tentennamenti fra immanenti quanto irrealizzabili desideri e una accettazione acritica della struttura logica capitalista, diviene altamente vulnerabile alla individuazione di capri espiatori, siano essi i fondi speculativi (Hedge Funds), il governo degli Stati Uniti o le grandi imprese o – in ultima delirante conseguenza – “gli ebrei”.
Può sembrare paradossale, ma se non ci si vuole sottomettere alla “Realpolitik” ed a i suoi “credo” è indispensabile identificare chiaramente i limiti delle possibilità della politica nel periodo attuale di crisi capitalistica. Non per darle un riconoscimento, ma come base necessaria per l’orientamento dei movimenti sociali e di quelle parti dei sindacati che si contrappongono al depauperamento sociale sistematico, alla progressiva dequalificazione di tutte le aree della vita, alla precarietà e al controllo che l’accompagnano, e alla repressione. Lasciare che i movimenti si impegnino in illusorie prospettive politiche e nelle politiche di partito, significa solo neutralizzarli.(15) Coalizzarsi invece per collegare le lotte oltre i confini degli interessi particolari, le relazioni di vita frammentate e le identità separate, potrebbe riuscire a superare la perdita di solidarietà causata dalla pressione della crisi e formare un contrappeso sociale che si opponga con successo alla demolizione neoliberista e alla sua politica di esclusione, e insieme ponga di nuovo il superamento della logica capitalistica nel regno del possibile.
… O la crisi dell’economia mondiale?
Dovesse tuttavia fallire il rinvio della recente crisi, saremmo minacciati da una crisi economica globale di proporzioni enormi, in cui si scaricherebbero i potenziali di crisi accumulati in trent’anni. Il risultato immediato sarebbe un crollo massiccio di aziende e banche, presumibilmente accompagnato da un violento aumento dell’inflazione. Non ci vuole grande fantasia per immaginare l’impatto devastante di questa mega-stagflazione sulle finanze dello Stato, sui sistemi sociali e sulle condizioni di vita della stragrande maggioranza della popolazione. È molto probabile che in queste condizioni guadagnerebbe consenso un’ideologia nazional-populista di gestione delle crisi, come in effetti già da tempo viene propagata, e non solo dalla parte di destra dello spettro politico. Ad esempio, quando il giornalista di “sinistra” Jürgen Elsässer (che scrive sul Neues Deutschland) chiama ad un “Fronte Popolare Nazionale” contro il capitale globalizzato e, soprattutto, contro il capitale finanziario (che egli – che sorpresa – individua principalmente negli Stati Uniti), questo può lì per lì solo sembrare un’esternazione dettata dalla sovraeccitazione. Essa rappresenta, invece, una tendenza che spinge verso una preclusione aggressiva e nazionalistica nel confronti dell’esterno e verso un disciplinamento autoritario all’interno, al tempo stesso promuovendo sentimenti anti-semitici. È vero che, anche sotto l’aspetto della mera gestione delle crisi, dati i forti legami economici transnazionali, un ritorno a un ben delimitato stato-nazione è quasi impensabile. Più probabile è una disgregazione dell’economia mondiale in blocchi continentali, uno scenario che negli apparati del potere politico e nei Think Tanks viene considerato già da lungo tempo. Una forte spinta in questa direzione potrebbe essere il prevedibile crollo del dollaro e la conseguente perdita della sua funzione di moneta mondiale.(16)
Un tale scenario non rappresenta certo una soluzione alla crisi nel vero senso della parola, ma solo una forma di gestione delle emergenze. In nessun caso questo tentativo potrebbe avrebbe il carattere di un “ripulimento” della crisi, con il quale venisse creata, spazzando via sovracapacità e titoli tossici, la base per una nuova accumulazione sostenibile. Perché la vera causa della crisi, cioè l’espulsione di forza-lavoro viva dalla produzione diretta attraverso dallo spostamento delle forze produttive sul terreno del sapere generale sociale, e con ciò l’erosione della produzione di valore, non sarebbe stata rimossa. Anche successivamente ogni produzione dovrebbe ripartire dal livello tecnologico di produttività raggiunto, o comunque misurarsi in base ad esso, mentre la gara della produttività continuerebbe. Ad un livello inferiore di produzione di valore si riproporrebbe immediatamente la situazione di costante sovraccumulo, inclusa necessariamente una nuova bolla di capitale fittizio. Con ciò si arriverebbe solo ad una riproduzione delle contraddizioni della recente crisi, significativamente aggravata dalle condizioni economiche e sociali. La domanda cruciale allora è se si può sviluppare, dalla resistenza contro la gravità del processo di crisi, un movimento globale di emancipazione, che faccia emergere un programma pratico di appropriazione dei legami sociali al di là della logica dello sfruttamento capitalistico.
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1- http://wipo.verdi.de/broschueren/finanzkapitalismus
2- www.labournet.de/diskussion/gewerkschaft/real/insekten_wipo.pdf
3- Sulla citata broschure dei Ver.di “capitalismo finanziario = cupidigia allo stato puro” cfr.. Lothar Galow-Bergemann: “Gegen Börsenungeziefer” [contro i parassiti delle borse] apparso su Streifzüge 42/ 2008 (https://www.streifzuege.org/2008/gegen-boersenungeziefer#more-492) oppure la critica del capitale finanziario presente in www.labournet.de/diskussion/gewerkschaft/real/insekten.html a cura dei Ver.di di Stuttgart
4- Cfr. per esempio il mio articolo apparso sul numero 32/ 2004 di Streifzüge “Entsorgung nach der Art des Hauses” [smaltimento fatto in casa] – https://www.streifzuege.org/2004/entsorgung-nach-art-des-hauses#more-351
5- Cfr. per esempio l’ottima analisi proposta in Elmar Altvater, Volkhard Brandes, Jochen Reiche (Hrsg.): “Handbuch 4. Inflation – Akkumulation – Krise II” [manuale vol.4. Inflazione – Accumulazione – Crisi], Frankfurt/M. 1976
6- Per una rappresentazione grottesca ed esasperata della tesi secondo la quale il superamento del gold-standard sia da attribuire ad una scelta volontaria, cfr Jürgen Elsässer: „1971 verkündigte US-Präsident Richard Nixon in einer Nacht- und Nebelaktion das Ende der Goldumtauschpflicht für den Dollar. Seither zersetzt sich die ökonomische Grundlage des Kapitalismus sukzessive“ [nel 1971, il presidente Nixon annunciò in un colpo la fine del cambio obbligatorio in oro per il dollaro: da allora, si sono distrutti i fondamenti economici del successivo capitalismo] in: Solidarität – Sozialistische Zeitung, Nr. 57, 4.5.2007.
7- Le statistiche economiche mostrano come oggi sia necessaria una crescita del PIL molto più alta rispetto agli anni ’70 per creare dei posti di lavoro. L’analisi statistica tuttavia si muove ancora entro un quadro molto ottimistico, considerando semplicemente una contabilità dei posti di lavoro senza domandarsi se essi contribuiscano alla produzione di valore o meno (questione che le statistiche economiche escludono a priori). Per la maggior parte dei servizi, così come per la “produzione di sapere”, non vi è produzione di valore [su ciò cfr. Samol: Arbeit ohne Wert [lavoro senza valore], Lohoff: Der Wert des Wissens (il valore del sapere), und Meretz: Der Kampf um die Warenform [la lotta per la forma-merce], in Krisis 31/2007]. In tal senso, la crescita del terziario non può compensare la secolare tendenza a liquefarsi della sostanza del lavoro e del valore
8- Su ciò è bene ricordare quanto Marx, a questo proposito, riferisce nel primo libro del Capitale: “potrebbe sembrare che, se il valore di una merce è determinato dalla quantità di lavoro impiegato durante la sua produzione, più un uomo è pigro o goffo, più preziosa è la merce che egli produce, visto che ha bisogno di più tempo per la sua preparazione. Il lavoro tuttavia, che costituisce la sostanza del valore, è sempre lo stesso lavoro umano, dispendio della stessa forza-lavoro umana. La forza-lavoro totale della società, che si manifesta come valore nel mondo delle merci, vale qui come una e stessa forza-lavoro umana, sebbene sia composta da innumerevoli singoli lavoratori. … Dopo l’introduzione del telaio a vapore in Inghilterra, per esempio, era forse sufficiente metà del lavoro prima impiegato per trasformare una data quantità di filato in tessuto. I tessitori inglesi lavoravano però tanto tempo quanto prima, ma il prodotto delle loro ore di lavoro individuali rappresentava ora solo una mezz’ora sociale di lavoro, ed era quindi sceso a metà del suo valore precedente. “(MEW 23, pag .53; it.pag.30, Newton Compton ed.,1979. La traduzione qui è leggermente ritoccata)
9- Cfr. Norbert Trenkle: Es rettet euch kein Billiglohn [non vi salverà neanche il salario basso] in: Kurz, Lohoff, Trenkle (Hrsg.) Feierabend! Elf Attacken gegen die Arbeit [Facciamo festa! Undici attacchi contro il lavoro], Hamburg 1999 – http://www.krisis.org/navi/feierabend-elf-attacken-gegen-die-arbeit
10- Scrive Elmar Altvater: “I cittadini statunitensi possono tenere un elevato standard di consumo, il famoso “stile di vita americano”, sebbene essi siano profondamente indebitati … Ciò richiede, in primo luogo, un elevato tasso di risparmio in altre regioni del mondo, che consenta agli Stati Uniti e ai suoi cittadini di oltrepassare i limiti. In secondo luogo, che i mercati finanziari funzionano in modo che i risparmi del mondo vengono convogliati negli Stati Uniti” (Elmar Altvater: Das Ende des Kapitalismus – so wie wir ihn kennen, Münster 2005, S. 135 [La fine del capitalismo per come noi lo conosciamo], Münster 2005, p 135)
11- Lafontaine ha ironicamente accusato Josef Ackermann di esser diventato di sinistra, poiché questi di fronte alla crisi finanziaria sosteneva l’intervento dello Stato nel sistema bancario (Netzeitung, 20.3.2008). Di fatto questo mostra come, per quanto riguarda la gestione della crisi, tutti i partiti si trovino allineati.
12- È quindi anche ridicolo che oggi le banche siano criticate per le loro perdite da speculazione immobiliare. Hanno fatto solo quello che, nel boom speculativo, ci si aspettava da esse, ovvero di mettere i “loro” soldi a profitto. Se non lo avessero fatto, sarebbero certamente stati attaccati dagli “esperti” per la loro “eccessiva cautela”, gli stessi che ora, a fronte delle alte perdite, gridano allo “scandalo”.
13- Tuttavia, si deve registrare anche un conflitto di interessi tra gli Stati Uniti e l’Unione europea, di cui la crisi potrebbe accelerare lo slancio. Mentre gli Stati Uniti, come al solito, hanno penalizzato i tassi di interesse, e hanno creato in poco tempo un pacchetto di aiuti governativi del valore di circa 150 miliardi di dollari, i governi europei e la BCE mettono in primo piano la lotta all’inflazione e si rifiutano perciò di abbassare gli interessi. Qui, l’argomento un po’ stupido che viene utilizzato è che la crisi è negli Stati Uniti, mentre in Europa l’economia è stabile, come se le due economie non fossero legate strettamente. In realtà, tutto questo potrebbe causare un ancora più forte crash del dollaro, che potrebbe far perdere agli USA il loro ruolo di motore del consumo nell’economia globale. Allora il legame tra BCE e UE, ora rimosso, si imporrebbe certamente in modo violento.
14- Per l’analisi di questo meccanismo, cfr. Ernst Lohoff: Out of Area – Out of Control, in: Streifzüge Nr. 31 e 32, Wien 2004
15- Così, ad esempio, come è successo per gran parte del movimento italiano anti-globalizzazione e per i social forum che si sono lasciati confluire nel partito “Rifondazione” e sono stati quindi costretti a sostenere il governo Prodi, almeno indirettamente. In questo modo hanno perso la loro capacità di mobilitare e sono ora di fronte a un disastro politico…
16- In certi ambienti economici si discute seriamente di un ritorno al gold standard, ciò che fra le altre cose porterebbe ad una completa svalutazione dei dollari accumulati negli ultimi decenni. “Se tutto va a catafascio e nessuno più vuole avere il dollaro debole, l’America tagli la sua valuta e la leghi all’oro accumulato in Fort Knox. Il resto del mondo, che attraverso l’acquisto di valuta statunitense ha finanziato la macchina-da-debito statunitense, rimarrebbe con un palmo di naso” (Wirtschaftswoche 18.2.2008, p 134).