Sulle ultime opportunità di salvare il sistema capitalistico oggi in Italia

Paolo Lago

Dove stai di casa, o rozzo
che mai udisti dell’oro del Reno?

Wagner, L’anello del Nibelungo

Non siamo al peggio finché possiamo dire
“questo è il peggio”.

Shakespeare, Re Lear

Nel 1975 così scriveva Censor, alias Gianfranco Sanguinetti, nel suo Rapporto Veridico sulle ultime opportunità di salvare il capitalismo in Italia: “La crisi di oggi non è una crisi economica ma è una crisi dell’economia, vale a dire del fenomeno economico nel suo insieme” ribadendo che “l’economia è entrata in crisi di per sé e, con movimento proprio, ha imboccato la via dell’autodistruzione”. Sanguinetti, un homo ludens appartenente all’Internazionale Situazionista, nella stesura di questo pamphlet, si nascondeva sotto uno pseudonimo che incarnava l’oligarca di destra in doppio petto, nobile borghese, spregiatore del popolo, il quale, con uno stile elegantemente seicentesco, svelava molte verità scomode dell’Italia di quegli anni. La figura teatralmente creata da Sanguinetti, quel Censor elegante e raffinato, potrebbe apparire quasi una sorta di precursore del Monti attuale, anch’egli redattore di un “rapporto (poco) veridico” sulle estreme possibilità di salvare il capitalismo in Italia. Ai giorni nostri, Norbert Trenkle, un lucido esponente del tedesco Gruppo Krisis, ribadisce che l’attuale crisi è “una crisi del modo di produzione capitalistico”, destinata quindi a durare oltre ogni estrema possibilità di salvezza.

La volontà di salvare il sistema di produzione capitalistico, nell’Italia attuale, sfocia in una serie di provvedimenti dettati dalla disperazione da parte di uno Stato che non riesce più a controllare i propri debiti, che si appoggia sull’ideologia del lavoro facendone quasi un’icona e, contemporaneamente, vuole azzerare i diritti stessi dei lavoratori in nome della produzione. Di fronte alla manovra “lacrime e sangue” presentata dal governo che taglia ogni settore pubblico, dalla cultura alla scuola, resistono comunque due monumenti, due icone, appunto, che non cadranno mai alle sforbiciate governative. Si tratta delle grandi opere e della “macchina da guerra”, cioè, in sostanza, della TAV e delle spese militari. Non si può tornare indietro su questi due punti, essi non sono discutibili: spese di milioni di euro che non possono essere eliminate dal programma di uno stato economicamente sul lastrico. Si potrebbe allora affermare che sia il progetto TAV che le spese militari (nella fattispecie l’acquisto dei famigerati cacciabombardieri) si sono trasformati in feticci, cioè in oggetti rivestiti di valori simbolici, affettivi, emozionali. Il termine “feticcio” deriva dal latino facticium ed è poi stato trasferito alla modernità attraverso la parola portoghese con la quale i primi missionari esprimevano la loro sorpresa osservando come gli abitanti dell’Africa adorassero la pietra e il legno. E tale parola risulta poi estremamente importante nel pensiero di due assi portanti della contemporaneità culturale: Marx, nel quarto paragrafo del primo capitolo del Capitale, analizza il “carattere di feticcio della merce” mentre Freud, in un saggio del 1927, parla di “feticismo” definendo il feticcio come un qualcosa che ha la sua origine nell’infanzia, come per il bambino il sostituto del fallo della madre. Comunque, sia in termini marxiani che psicanalitici, il feticcio è un oggetto rivestito appunto di valori simbolici ed emozionali, un oggetto di indiscussa adorazione1.

Il progetto della TAV non può essere quindi discusso perché, per il governo attuale (ma anche per quello precedente e per quello che verrà, di destra o di sinistra) e per una larga messe di politicanti a livello locale e nazionale è diventato un vero e proprio feticcio. Un oggetto simbolico che creerà – dicono – tanto lavoro (lo stesso lavoro, nella sua accezione astratta, diviene un feticcio) e perciò non può essere interrotto, mentre invece vengono smantellati con facilità i diritti dei lavoratori. L’altro grande feticcio ‘intoccabile’ sono le spese militari, gli armamenti, l’acquisto di quei famosi cacciabombardieri che nessuna crisi può fermare. L’esercito e i cacciabombardieri fanno parte di quella che Gilles Deleuze e Félix Guattari, in Mille Piani, definiscono come “macchina da guerra” interna allo Stato.

Sennonché, continuano gli studiosi francesi, lo Stato non ha una propria macchina da guerra (quest’ultima è infatti prerogativa dei popoli nomadi, come gli Hyksos che invadono l’antico Egitto): “se ne approprierà soltanto sotto forma di istituzione militare e quest’ultima continuerà a causargli problemi”2. Lo Stato organizzato, appropriandosi della macchina da guerra e istituzionalizzandola nel proprio apparato militare, introduce dentro se stesso un micidiale cavallo di Troia. E proietta il suo desiderio feticistico – cosa quanto mai pericolosa – su questo elemento incontrollabile. Rende feticcio qualcosa che in realtà non conosce. Ed è così che tale macchina da guerra istituzionalizzata viene schierata su due fronti: su quello interno e quello esterno. Su quello interno la polizia difende la costruzione del feticcio-TAV aggredendo la popolazione che vi si oppone; su quello esterno soldati, navi da guerra e cacciabombardieri verranno utilizzati per schiacciare civili e popolazioni inermi in Afghanistan e sui nuovi fronti di scontri in Oriente. Ma appunto perché incontrollata, questa macchina bellica sarà micidiale: la cecità di voler finanziare a tutti i costi economie di guerra creerà una guerra all’economia e al sistema capitalistico, fondato su un modello di espansione economica imperiale. Mentre sul fronte interno, la macchina da guerra si trasferisce surrettiziamente ad un elemento nomadico e incontrollabile, alla resistenza che si struttura in forma libera e leggera di fronte alla pesante armata oplitica istituzionalizzata. Deleuze e Guattari così definiscono questo importante momento in un altro passo estremamente interessante di Mille Piani: “Tuttavia le condizioni stesse della macchina da guerra di Stato o di mondo, ossia il capitale costante (risorse e materiale) e il capitale variabile umano, non cessano di ricreare possibilità di repliche inattese, di iniziative impreviste che determinano macchine mutanti, minoritarie, popolari, rivoluzionarie”3.

La leggerezza di una forma in divenire rivoluzionaria, minoritaria, nomadica, legata alla realtà del proprio territorio si pone in contrasto con un elemento irreale come un feticcio adorato dall’apparato di Stato. Anzi, contro due feticci, come nel caso della lotta no-TAV: il progetto stesso dell’alta velocità e l’apparato militare chiamato a difenderlo. Ci troviamo di fronte a una lotta tra una forza reale, autentica, legata a valori fortemente radicati al benessere del territorio e dello stesso essere umano e una forza invece irreale, simbolica, creata nell’irrealtà dell’adorazione di merci, di lavoro e di economia astratti. E quando le varie forme di potere e le varie macchine da guerra istituzionalizzate, come tanti bambini che hanno giocato alla guerra, apriranno gli occhi e comprenderanno la vera realtà sarà troppo tardi, inequivocabilmente troppo tardi. E allora cadranno, insieme a questo paese di stupidi bambini in divisa che giocano alla guerra (sia interna che esterna), anche gli ultimi feticci di un sistema che nulla ha da invidiare agli zombie di Romero.

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