qualche nota contro la ‘morale’
Streifzüge 44/2008
Paolo Lago
…getta rose nell’abisso e dì: “Ecco
il mio ringraziamento al mostro che
non è riuscito a inghiottirmi!”
Friedrich Nietzsche, Frammenti postumi
È soprattutto nei Dialoghi dei morti di Luciano di Samosata (II secolo d. C.) che sopravvive lo spirito cinico antico, incarnato nel personaggio duro e spregiudicato del filosofo Menippo di Gadara. Nell’Ade, il regno dei morti, di fronte alle lamentele di coloro che erano ricchi e potenti sulla Terra quando erano vivi, Menippo oppone la sua risata cinica e tagliente. Ad esempio, nel primo dialogo, quello fra Diogene e Polluce, così il primo si rivolge al secondo: “Polluce, vorrei affidarti un incarico: quando sarai tornato su – domani tocca a te, mi sembra, risuscitare – se ti capiterà di vedere Menippo il cinico, e potrai trovarlo a Corinto nel Craneo o nel Liceo ad Atene intento a deridere i filosofi in rissa fra di loro, digli: «Menippo, Diogene ti invita, se hai deriso a sufficienza le cose della Terra, a venir qui a ridere molto di più: lassù infatti il tuo riso è ancora discutibile e frequente la domanda: ‘Ma chi conosce veramente quello che c’è dopo questa vita?’, ma qui non cesserai sicuramente di ridere, come ora faccio io, e soprattutto quando vedrai che i ricchi, i satrapi, i tiranni sono tanto insignificanti e anonimi, distinguibili solo per i loro gemiti, e che sono deboli e vili quando ricordano le cose di lassù […]» (Dialoghi dei morti, I, 1).
Menippo viene assunto come il simbolo di quel cinismo che, sotto la risata e il dileggio, nasconde però un cuore serio e cupo dominato dal fatalismo e dal nichilismo: nel regno dei morti non c’è differenza fra un filosofo (o un presunto tale) e un ignorante, fra un re e un contadino, fra un ricco e un povero, ma tutti sono inesorabilmente uguali. Pensiamo anche al dialogo X, in cui Luciano mette in scena una sfilza di morti, fra i quali anche Menippo, che devono salire sulla barca di Caronte. Perché questa non affondi, ognuno deve liberarsi del peso superfluo: così Lampico, il tiranno di Gela, oltre che la ricchezza, dovrà gettare via anche la boria e l’arroganza; l’atleta Damasia dovrà liberarsi dei suoi muscoli conquistati con gran fatica nelle palestre; il generale vincitore dovrà gettare via le armi e il trofeo; il filosofo il mantello e la barba (per ‘moda’, infatti, allora i filosofi portavano la barba); Menippo, invece, una volta gettati via soltanto la bisaccia, il bastone e il suo mantello sporco, potrà salire sulla barca di Caronte dove avrà il posto d’onore. Luciano non risparmia attacchi e dileggi neanche nei confronti di Aristotele: nel dialogo fra Diogene e Alessandro (XIII), ad esempio, il grande filosofo viene apostrofato come “il più scaltro degli adulatori” nonché come un “ciarlatano” e un “imbroglione” (XIII, 5).
Peter Sloterdijk, nella sua Critica della ragion cinica, riprende la categoria di cinismo attuando una distinzione fra cinismo antico (che egli chiama kinismo) e cinismo moderno. Mentre il primo, come pratica sovversiva e dileggiante nei confronti dei potenti (secondo quanto abbiamo appena visto riguardo ai dialoghi di Luciano) aveva un significato essenzialmente positivo, quello moderno assume un senso negativo. Il nuovo cinismo (che definisce, in questo punto, come “moderna critica dell’ideologia”) – scrive Sloterdijk – “ha ormai abbandonato (gesto fatale) quella potente, ilare tradizione del sapere satirico che aveva le sue radici, filosoficamente parlando, nel kinismos degli antichi”1; la nuova critica “viene al mondo ed è già codina”, “parruccona” e “agghindata in giacca e cravatta”2.
Il nuovo cinico, secondo lo studioso tedesco, è colui che riveste una posizione di potere: “Il cinismo diffuso ha ormai conquistato le posizioni chiave della società: presidenze, parlamenti, comitati di controllo, direzioni aziendali, lettorati, studi professionali, facoltà universitarie, segreterie di produzione e redazioni”3. Sloterdijk ricorda come Gottfried Benn, “uno dei portavoce più puntuali del paradigma cinico moderno” ne diede (tra l’altro, non specificando la fonte) la definizione “Esser scemi e avere un lavoro, questa è la fortuna!”4. Il neo-cinismo, caratteristica di chi possiede il potere, sembra allora diffondersi a tutta intera una società: anche a chi, perciò, non lo possiede ma costantemente lo ricerca. A un cinismo dei mezzi si contrappone un moralismo dei fini: per raggiungere ideali moralmente alti si può utilizzare ogni mezzo, anche il più bieco. Ed è così che da sempre il potere, per raggiungere i suoi scopi mascherati dalla moralità e dalla democrazia, in ogni tempo, non ha esitato a mietere vittime innocenti.
Però, come ho accennato, pare che nella contemporaneità questo neo-cinismo si sia allargato indefinitamente a tutti gli strati della società e non soltanto a quelli detentori del potere. Prendiamo, ad esempio, la questione del ‘diverso’ e dello ‘straniero’. I recenti pogroms che, in Italia, sono stati scatenati contro i rom e gli zingari sono scaturiti da un nuovo cinismo contemporaneo il quale, in nome di ideali morali (come la difesa della proprietà privata o la difesa dei propri figli, poiché gli zingari ‘rubano’ sia i beni materiali che i bambini), non esita a compiere ogni tipo di violenza nei confronti di chi non reputa detentore di questa moralità. Il nuovo cinismo si è fatto tristo e serioso e, come ancora nota Sloterdijk, è totalmente incentrato, in modo alienante, sulla propria privacy: perciò, lo straniero come il rom che, per tradizione, conduce una vita fortemente intrisa della ‘pubblica piazza’ (un po’ come i cinici antichi) lontano dalle case stanziali e accoglienti del conformismo occidentale, deve essere respinto e considerato alla stregua di un monstrum, un essere inconcepibile e ripugnante. Allora, portavoci e servitori di questo neo-cinismo saranno i mezzi di informazione come i giornali e le televisioni: è attraverso di essi che i cinici ‘moralisti’ detentori del potere lanciano i loro messaggi invasivi a tutti gli strati della popolazione. Soprattutto i proletari e gli operai sembrano aver recepito in maniera particolare questo messaggio: non è un caso che, sempre nel panorama italiano, alle recenti elezioni una stragrande maggioranza di operai abbiano votato Lega Nord, un partito neo-cinico per eccellenza. Così non solo i rom e gli zingari, ma anche i marocchini, gli albanesi, i polacchi, sullo schermo televisivo o sulle pagine dei giornali, vengono dipinti come nuovi criminali attentatori della moralità. C’è un indubbio gusto, diffuso nella stampa contemporanea, nello specificare che un furto, uno stupro o un omicidio sono stati commessi da uno ‘straniero’ (in molti casi specificando anche la sua nazionalità), mentre un italiano ubriaco che alla guida di un potente Suv (sicuramente un uomo ricco, uno fra quei tristi e malinconici neo-cinici) investe e uccide delle persone a piedi o in bicicletta costituisce una notizia sicuramente meno eclatante.
Ma il neo-cinismo attua anche scelte antibiologiche e, se così si può dire, anti-antropologiche5: in nome di nuovi posti di lavoro (per essere ancora più scemi e godere del proprio lavoro) e in nome di un cieco sviluppo, non esita a costruire rigassificatori in mare (come nel caso specifico di Livorno, in Italia), linee ad alta velocità che sventrano montagne e deturpano paesaggi, raffinerie, centrali nucleari e, sempre in ambito italiano, ipotetici e surreali ponti sullo stretto di Messina. Per non parlare, poi, delle infinite guerre che porta avanti, anch’esse giustificate con fini ‘morali’: lotta ai terroristi (anch’essi appartenenti ad altri popoli estremamente diversi e lontani dalle tradizioni occidentali), dimostrazione di potenza e ‘salute’ della democrazia e delle sue strutture.
Tale neo-cinismo, in epoca contemporanea, è divenuto un fatto culturale: fa cioè parte della cultura di un popolo, di una nazione (penso si possa estendere, senza correre il rischio di generalizzare troppo, a tutte le nazioni appartenenti all’occidente avanzato e post-neocapitalistico). Si diffonde fra i suoi interstizi come, in una giornata estiva, la musica della canzone del momento sulle spiagge sovraffollate, o il rumore e lo smog provocati dal passaggio degli innumerevoli automezzi e ciclomotori, nell’indifferenza e assuefazione generali.
Ma c’è un antidoto ad esso? Pare proprio di sì, e lo stesso Sloterdijk ce lo fa intravedere: “Nell’istante stesso in cui la nostra coscienza sarà matura per lasciare cadere l’idea del bene come fine concedendosi finalmente a quello che è già qui, allora ci potrà essere un certo relax, e l’enorme accumulo di mezzi in favore di scopi immaginari e sempre più remoti diverrà finalmente superfluo. Quindi: solo il kinismo (e non la morale) può arginare il cinismo! Solo un kinismo tranquillo e sereno saprà superare la tentazione che sempre nuovamente ci induce a obliare la vita, che non ha nulla da perdere fuorché se medesima”6.
La formula di salvezza, secondo il filosofo tedesco, viene dagli antichi, da quell’antico cinismo che dileggiava i potenti e irrideva il potere. Tornare cinici antichi contro la morale e contro il moralismo dei fini: irriderli e, per richiamarsi all’opera di un altro grande studioso, critico della società contemporanea, Ivan Illich, raggiungere una nuova condizione di convivialità (espressione, anch’essa, ricollegabile al mondo antico: basti pensare al Convivio di Platone). Criticare e superare i contemporanei strumenti della morale e del potere: lo sviluppo industriale selvaggio, un sistema scolastico ed educativo fallimentare, una crescita economica giunta ormai ai suoi limiti. Essere liberi, autonomi e creativi, dice Illich7; creare una rete di affetto, amicizia, bellezza – si può aggiungere – contro la tristezza e l’autoreferenzialità del neo-cinismo. Fare insomma un pò come Protesilao che, nel dialogo XXIII di Luciano, riesce a sfuggire, pure se per un sol giorno, al mondo dei morti per tornare dalla sua Laodamia, abbandonata il giorno stesso delle nozze per correre alla guerra di Troia dove presto avrebbe trovato la morte. Quel cinismo antico, per mezzo di un grande scrittore come Luciano, è stato capace di riprendere e tratteggiare quell’amore già presente nel mito, un amore così forte da essere capace di infrangere il muro del buio per tornare dalla persona amata, separata per sempre dalla guerra e dalla morte.
1 P. Sloterdijk, Critica della ragion cinica, trad. it. Garzanti, Milano 1992, p. 50 (Kritik der zynischen Vernunft, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1983).
2 Ibid.
3 Ibid., p. 36.
4 Ibid., p. 38.
5 Cfr. ibid., p. 41: “Accade infatti che si debbano trattare le questioni dell’autoconservazione e della vita con lo stesso linguaggio con cui si trattano quelle dell’autodistruzione e della morte: in ciò pare agire la stessa logica di revoca morale, che chiamo logica della struttura cinica”.
6 Ibid., p. 158.
7 Cfr. I. Illich, La convivialità, trad. it. Boroli, Milano 2005 (Tools for Conviviality, Harper & Row, New York 1973). [Ivan Illich, Selbstbegrenzung. Eine politische Kritik der Technik, C.H.Beck, München 1998]